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“Il mandarino meraviglioso”

Primo romanzo di Asli Erdogan tradotto nel nostro Paese, sviluppa una ricerca dell’identità che richiama le atmosfere di Agota Kristof
L’occhio solo della TURCHIA

Un libro assai singolare quello che fa conoscere per la prima volta in Italia una delle maggiori scrittrici turche di oggi, Asli Erdogan, che nel nostro Paese ha già avuto modo di far conoscere la sua voce per il tramite dell’attrice Serra Yilmaz, che ha portato in scena recentemente al Piccolo Teatro di Milano, un suo testo, Nel silenzio della vita, un viaggio al femminile, intriso delle inquietudini personali di una donna e di un’intera generazione.

Si tratta dello stesso tema di questo ”Il mandarino meraviglioso”, pubblicato in edizione originale nel 1996 e tradotto solo ora da Giulia Ansaldo per Keller: un romanzo che si compone di racconti legati tra di loro dal tema del viaggio notturno di una donna in una Ginevra inusuale e segreta, dove si svela il senso del dolore e della fragilità umana, quella forma di frattura della propria esistenza che si mostra in ferite interiori ed esteriori.

La protagonista del libro è una donna straniera, di origini turche, che mette a nudo, in questo suo vagare nelle strade buie e nelle zone meno conosciute della città, nei caffè frequentati dagli emigranti, la sua diversità, quella della malattia che l’ha colpita e che in qualche modo sembra allontanarla dai rapporti sociali. E questa sua immagine sembra accompagnare come una ferita indelebile e simbolica tutto il libro. Una malattia le ha fatto perdere l’uso di un occhio e lei vaga così, sapendo di essere guardata con sospetto, di incutere paura, di destabilizzare certe sicurezze della normalità: «Una donna con un occhio solo è più spaventosa persino di un fantasma». Così sceglie la notte, una forma di riparo rispetto al dolore, ma anche una possibilità per non mettere in discussione continuamente la sua identità, la sua possibilità di esistere. È difficile la sua situazione.
L’occhio perduto mette in circolo strane paure, esclude, annienta: «Incarno il messaggero maledetto, il testimone vivente dell’estinzione. Con un grido muto, il mio occhio parla dell’oscurità dello sguardo, della negazione compresa nell’esistenza».

Si profila così una doppia diversità vissuta dalla donna: dover fare i conti con il proprio occhio perduto e cercare di sopravvivere agli assalti della memoria, vivere in pratica un duplice esilio nel centro dell’Europa, sapendo di aver lasciato la sua terra, una Istanbul che sente più vera della Ginevra in cui si ora si trova a dover fare i conti. «Il mio occhio perduto è il mio universo personale, la mia prigione, il mio fondo abissale. Un po’ condanna, un po’ salvezza».

C’è anche il tema dell’estraneità, quella sensazione che la donna sente spesso di vivere a Ginevra come dentro uno scenario, «un luogo onirico». E così giunge a capire che «col passare del tempo, nelle mie scoperte sempre più approfondite, Istanbul appare più vera», anche se la città dalla quale sente di non essersi mai separata, quella della sua giovinezza, dei divieti e della mancanza di libertà, se la porta appresso come una fotografia nel portafoglio, «con i ricordi di una giovane donna che si è persa e se n’è andata».

Asli Erdogan, per la profondità e la qualità della scrittura sembra rileggere una lezione forte, quella della scrittrice ungherese (ma naturalizzata svizzera) Agota Kristof, per raccontarci come l’uomo sia un pozzo scuro, senza fondo che affoga nelle profondità del dolore.

14.11.2014
Fulvio Panzeri


 

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