Haberler
Haber Kaynaðý Seç

 

La Turchia senza folklore di Asli Erdogan di Lea Nocera

Sono oramai già diversi anni che, seppure lentamente e molto in sordina, la letteratura turca contemporanea

viene tradotta e pubblicata in Italia. Fino a poco più di dieci anni anni fa, per il lettore
italiano, se si escludono rare eccezioni (tra cui, ad esempio, Orhan Pamuk tradotto da
Frassinelli), non erano disponibili che due scrittori eccellenti: il poeta Nazim Hikmet e Yasar Kemal,grande cantore delle genti d’Anatolia e autore dell’epica di Ince Memed, meritevolmente
tradotto da Tranchida dai primi anni novanta. Senza dubbio a smuovere un po’ le acque dell’editoria italiana attirandola verso il Bosforo molto ha contribuito l’assegnazione
del premio Nobel a Pamuk nel 2006, per quell’effetto scatenante che il Nobel spesso provoca,basti ricordare l’aumento delle traduzioni di letteratura araba dopo che del premio fu insignito nel 1988 l’egiziano Naghib Mahfuz. Di certo incidono anche altri fattori, primo fra tutti il vero incentivo è dato da fondi per la traduzione messi a disposizione dal governo turco – che fanno molto gola soprattutto ai piccoli e medi editori – e da qualche finanziamento del programma culturale europeo, oggi sospeso; una certa influenza l’esercita inoltre l’interesse che in molti paesi d’Europa – Francia e Germania, innanzitutto – suscita la letteratura turca.

Così in questa nuova tendenza, che appare tutto sommato molto disordinata e piena di pecche,
è appena uscito, finalmente, per i tipi delle edizioni Keller, Il mandarino meraviglioso
di Asli Erdogan (traduzione di Giulia Ansaldo).
Asli Erdogan, nata a Istanbul nel 1967, arriva in Italia dopo aver riscosso già grande successo
in Francia, Germania, Norvegia, e ottenuto numerosi riconoscimenti in Turchia, tra cui il prestigioso

Premio Sait Faik, intitolato a uno dei maestri del racconto breve. Considerata sin
dalle sue prime opere, apparse a metà degli anni novanta – Il mandarino meraviglioso è del
1996 – come una scrittrice di valore e significativa per la letteratura turca, gode anche del sostegno di Orhan Pamuk che ha più volte colto l’occasione per lodarne le doti letterarie.

Scrittrice per passione, e per una strana follia che l’ha travolta mentre lavorava alla sua tesi
al Cern di Ginevra, si è lasciata alle spalle una carriera accademica come fisica nucleare per
dedicarsi completamente alla scrittura dopo il successo del suo secondo romanzo, Kirmizi pelerinli kent (La città dal mantello rosso, 1998). La sua inquietudine, un’attrazione per l’oscurità e i margini, che traspare nella sua opera, l’hanno portata anche a un’attività giornalistica in cui si è sempre esposta per la difesa dei diritti umani, per denunciare la situazione delle carceri, criticare la violenza sulle donne, tanto da subire più volte minacce e aggressioni, qualche licenziamento in tronco, e quindi vedersi costretta a lunghi periodi di residenza all’estero.

In questo non è lontana da molti altri scrittori, giornalisti, artisti in Turchia che per
aver preso posizione su questioni politiche e sociali da sempre irrisolte nella storia del paese
(la questione curda, la repressione statale, il genocidio armeno) hanno dovuto scontare procedimenti giudiziari, ritorsioni, minacce, spesso anche striscianti e sottili, che indurisconol’esistenza.

La storia della letteratura turca contemporanea è stata costellata per decenni da figure di
scrittori intellettuali motivati da un progetto e un posizionamento politico, ideologico, convinti
tra l’altro del profondo valore pedagogico ed educativo della narrativa: dagli autori—intel—
138
OPERE/GIORNI
NUMERO 174/175
DICEMBRE 2014/GENNAIO 2015lettuali integrati e sostenitori del progetto nazionale kemalista dei primi anni della repubblica agli scrittori del realismo socialista, perdurato in qualche forma fino alla fine degli anni
settanta. E numerosi sono gli autori che hanno fatto esperienza del carcere, delle fughe, dell’esilio:

oltre a Nazim Hikmet per citarne solo alcuni Sabahattin Ali, Orhan Kemal, Sevgi Soysal.
Ma sempre più nel corso degli ultimi decenni c’è stato un ripiegamento sull’individuo, l’allontanamento da tematiche sociali e l’affermazione di generi letterari, come il romanzo storico o il poliziesco, che appaiono anche di più facile esportazione. E quando ci sono casi, oggi, in cui il travaglio dello scrittore oltre a misurarsi con una sperimentazione stilistica richiama i
tormenti di un paese e di una cultura nazionale da noi raramente ne arriva l’eco.
Ed ecco il merito della casa editrice Keller che si sottrae, per nostra fortuna, alla ricerca facile,scontata, orientata al mercato, di titoli – e copertine! – esotiche, che raccontano, magari
qualche volta anche bene, di moschee, ceramiche blu Iznik, lune mezze o intere, e una manciata
di ispirato cosmopolitismo ottomano che non si disprezza mai. Se cercate Istanbul, minareti e traghetti con Asli Erdogan capitate male. Non che non troviate Istanbul, certo compare, ma le immagini poetiche vengono subito violentemente dissacrate con le crudezze del quotidiano:
un gattino schiacciato da un minibus, due poliziotti che arrestano dei poveracci, lo sporco dei bassifondi. Il mandarino meraviglioso (o miracoloso) presentato dall’editore come romanzo è in realtà una raccolta dove a un romanzo breve, che dà il titolo al libro, seguono altri scritti, racconti, frammenti. Inizia tra le strade notturne di una Ginevra tanto ordinata e pulita da avere fiori di plastica nei vasi pubblici e, anche per questo, ma non solo, estraniante e angosciosa. Una giovane donna, sfigurata in volto, priva di un occhio, vaga, solitaria, cercando delle ragioni, di se stessa, in un tormento a cui l’amore finito non
ha aggiunto che dei ricordi in più.
E così in questo vagabondare, in cui l’oscurità non fa che rendere più flebile il confine tra realtà, memoria e sogno, incontra e scruta persone, ognuna a suo modo persa in un’inesorabile solitudine. È a Ginevra, nella notte di “ladri, ciechi e neri”, in cui come altrove “chi cammina da solo dopo la mezzanotte è sicuramente uno straniero” che fa esperienza della sua stessa estraneità.
Improvvisamente, si trova a fare i conti con la
migrazione, la sua, e di quei molti altri che abitano la ricca città d’Europa, e non potranno mai esserne parte. Un movimento dettato dall’esclusione accomuna persone, chiude destini.
Come spesso capita, nella lontananza, nelle differenze d’abitudini, di sguardi, riemerge
anche la propria storia, la propria cultura, magari di cui fino allora si è persino negata l’esistenza, e ritorna con forza il passato. Ma non è tutta nostalgia. E se una brutta etichetta su una bottiglina di colonia in cui è disegnata Istanbul riporta indietro nel ricordo, di colpo ritorna tutto, la quotidianità a cui ci si è abituati e di cui si sente la mancanza, anche non volendo, ma anche le ferite, le violenze, i traumi. Per scoprire, alla fine, che “l’inferno non è né nel proprio paese, né lì; ma dentro di sé”.
Il tormento intimo che attraversa i personaggi è dell’autrice stessa. È un tormento che aleggia come uno spettro sulla Turchia e si ritrova anche nel silenzio di molti film, nelle solitudini irrisolte dei personaggi che abitano il cinema, la narrativa. Il peso di costrizioni,
la paura di parlare, le violenze accumulate, le trame oscure che si intrecciano ben strette
nella storia del paese hanno scavato dei solchi profondi nelle esistenze individuali oltre
139
OPERE/GIORNI
NUMERO 174/175
DICEMBRE 2014/GENNAIO 2015che collettive. E costringono a una ricerca disperata di ragioni, che è un continuo interrogarsi
su di sé, anche quando non si fanno i conti con il passato, la memoria gioca scherzi,
lavora nel più profondo dei livelli. Asli Erdogan non si inganna ed è capace di ritrovare
frammenti poetici, “immagini del paradiso”, ma grazie alla sua lingua (peccato solo per
alcune ingenuità della traduzione) sa essere durissima, diretta, di fronte alle “tempeste
di realtà”. Non si sottrae, in quella che appare la sua battaglia individuale, e offre a noi
un altro modo di leggere della Turchia.
140
OPERE/GIORNI
NUMERO 174/175
DICEMBRE 2014/GENNAIO 2015
Ugo Cornia tra gli animali di Pinuccia Ferrari
Non c’è sentimentalismo animalista in questo lungo racconto di Ugo Cornia (Animali, topi gatti
cani e mia sorella, Feltrinelli), sostituito da una sana considerazione sul rapporto tra noi e
gli animali definiti domestici. Uno sguardo analitico e lucido, da ricercatore di laboratorio più che da zoologo o etologo, rende subito chiaro che l’autore non è certo uno che antropomorfizza
il mondo a quattro zampe.

Definirei questo libro un’autobiografia anomala, che ricostruisce, attraverso la descrizione
del rapporto che si è nel tempo stabilito tra la famiglia Cornia e gli animali che di volta in
volta hanno abitato con essa, i rapporti interpersonali: quelli dello scrittore con padre,
madre e sorella (senza dimenticare nonne e zie, il che mi fa notare che la parentela risulta
soprattutto femminile): la prosa è volutamente “parlata”, senza insistere sul dialetto modenese (riservato a qualche frase del padre) e si avvale di ripetizioni, come uno che si rivolge a un amico un po’ tonto. In questo senso ricorda Francesco Piccolo e il suo Desiderio di essere come tutti, con la differenza che mentre Piccolo intreccia nel suo libro il privato e il pubblico, soprattutto la politica, Cornia limita il suo orizzonte al privato.
Una storia la si apprezza di più se parla di esperienze che si sono condivise, ed è il mio caso; ho anch’io una casa sull’Appennino emiliano e anche a me è capitato di avere incursioni di
topolini (mai le pantegane descritte da Cornia), che in un inverno particolarmente rigido si
erano fatti una comoda tana fra due materassi del letto matrimoniale, foraggiandosi con fagioli
e lenticchie avanzate dall’estate precedente e incautamente lasciati a loro disposizione.
Ed è proprio il capitolo iniziale che parla di topi e di invasioni che mi è piaciuto di meno, e non perché avessi da eccepire sulla qualità della scrittura o la capacità dell’autore di intrattenere il lettore, ma perché i topi mi piacciono nei fumetti e nei cartoni animati ma non a tu per tu, nella vita di tutti i giorni. Si dice che ci sia un’atavica avversione fra donne e topi e forse è vero, per me si tratta della loro coda, quell’appendice lunga e sottile mi ripugna, ed è perquesto che non mi piacciono nemmeno le nutrie.

Meglio è andata con i capitoli dedicati a gatti e cani. Con uno di quei tempismi che a volte la
vita regala, proprio mentre stavo leggendo il capitolo sui gatti mi è capitato di vedere un video internet, Assassin’s Kittens Unity, nel quale è magistralmente esemplificato
quanto Cornia racconta su questi fantastici killer. A parte le considerazioni di medici
e psicologi (accarezzare un gatto ha un effetto benefico su bambini e anziani, ecce

1.1.2015
ITALY


 

Haberler Biyografi Kitaplar Fotoðraflar Röportajlar Köþe Yazýlarý   Ýletiþim Ana Sayfa
Design by medyanomi